Lotta Europea

Lotta Europea

martedì 16 agosto 2011

Durante l'occupazione tedesca, la popolazione francese si trovò divisa in due: collaborazionisti (inizialmente numerosissimi) e uomini della resistenza (tanto numerosi alla fine del conflitto).
Il fenomeno della collaborazione fu animato sopratutto dagli intelletuali che vedevano nelle gesta dei tedeschi l'unica salvezza dall'annichilamento dell'uomo e dall'imane decadenza che avanzava.
Così fra le fila dei collaborazionisti troviamo accademici, giovani di belle speranze, autori di successo ed ingenui sognatori: alcuni furono subito dimenticati, di altri è rimasto solo il ricordo della loro produzione prebellica, mentre le indubbie capacità letterarie di altri sono state offuscate dal marchio del tremendo peccato di tradimento.
I protagonisti di questo fenomeno, che non fu affatto omogeneo, si differenziarono per le disparità di visionei, per le differenze di età, caratteri e temperamento.
Una volta che la Francia fu liberata, il destino fu per loro crudele: infatti furono boicottati dagli stessi intellettuali di sinistra, riuniti nel Comitato Nazionale degli Scrittori (di cui facevano parte, fra gli altri, Aragon, Sartre, Malraux e Camus) , a cui non era stato vietato di produrre e di pubblicare le loro opere durante l'occupazione.
Chi furono gli intelletuali collabos?
Louis-Ferdinand Celine, l'autore di Viaggio al termine della notte, di Morte a credito e di 3 pamphlets "maledetti". Fra questi ultimi spicca L'Ecole des cadavres, scritto prima che scoppiasse il conflitto mondiale, in cui la Germania è vista come l'unica nazione in grado di riequilibrare un' Europa ormai condannata alla rovina.
Anche Pierre Drieu La Rochelle, già in alcune poesie scritte durante la Grande Guerra, e poi ancora durante l'occupazione del suolo francese, delineava la Germania come unificatrice di una nuova, autonoma Europa, in grado di riassumere il suo legittimo posto di Occidente del mondo, abbandonando il ruolo di povero continente smarrito ai quattro venti: "vent asiatique, vent slave, vent juif, vent américan".
E ancora Jean Luchaire, Alphonse De Chàteaubriant, Maurice Sachs, Robert Brasillach,e tanti altri scrittori e gionalisti di riviste come "Je suis partout" e "Nouvelle Revue Français". Uomini che, al di là degli avvenimenti politici e militari, delle convenienze civili ed economiche, contribuirono alla formulazione di quella concezione che vedeva nella collaborazione con la Germania la sola concreta possibilità di coronora finalmente il grande sogno di un'Europa veramente unita e sottratta al nichilismo e alla decadenza contemporanea.
Un continente liberato dai confini interni, un "Europe contre les patries".
Un'Europa salda, possente, in grado di opporsi alle due superpotenze che la stringevano nelle loro morse.
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mercoledì 3 agosto 2011

I giornali sono tornati a parlare di globalizzazione e lo hanno fatto grazie a Edoardo Nesi, vincitore del Premio Strega con il suo "Storia della mia gente". Non è un saggio , ma la memoria personale di un imprenditore costretto a chiudere, nel 2004, l'impresa tessile di famiglia, attiva dagli anni Venti. Ed è con i suoi occhi di protagonista e soprattutto vittima del mercato che sono letti e descritti i mutamenti economici in atto.

Bersaglio principale dei suoi strali sono gli economisti e i giornalisti alla Giavazzi che nei loro articoli sulle colonne dei maggiori quotidiani sostenevano "l'infinità bontà della globalizzazione" e sprezzavano "l'incapacità di grandissima parte dell'industria italiana di adattarsi alle nuove regole di mercato imposte da quella che [loro consideravano] la grande panacea dell'apertura mondiale degli scambi commerciali". Nonostante le loro ricette a buon mercato (più o meno riassumibili nell'ordine categorico di licenziare gli operai ed assumere i laureati in matematica), e nonostante nessuno lo voglia ammettere le loro profezie non si sono avverate. Perché la storia non è andata come dicevano loro: secondo le favole ottimistiche spacciate per verità, "ci avremmo fatto un sacco di soldi, tutti noi italiani, [...] e se si volevano accelerare le cose bastava sbarcare subito in Cina e aprirvi fabbriche, sia per produrre a un costo molto più basso i nostri prodotti miracolosi e benedetti del Made in Italy, sia per prepararsi a venderli laggiù". Ma "i cinesi non corsero a comprare il Made in Italy, ma a produrlo".

Insieme agli economisti, finiscono sul banco "i camerieri dei banchieri" (la definizione è di Ezra Pound), i politici, "che d'economia si sono occupati solo per amministrare ogni tanto, a seconda di chi vincesse le elezioni, condoni tombali o tosature radicali, e intanto vergavano in gran silenzio le centinaia di firme in calce ai trattati che avrebbero scotennato l'industria manifatturiera italiana".

Il risultato è un sistema industriale distorto, in cui le aziende tessili italiane si sono consegnate "alle grandi aziende dell'abbigliamento mondiale così adorate dai giornalisti economici; [...] quelle titaniche aziende globali che si acquattano nei loro quartier generali nuovi e splendenti creati dai loro servi più fedeli, gli architetti di grido: monumenti diacci e sterili fatti d'acciaio e cemento e vetro che riflettono il cielo e le nuvole, dove lavorano solo dirigenti e impiegati perché la produzione dei capi avviene in un'altra parte del mondo, in fabbriche del tutto diverse [...] e da persone del tutto diverse, che non solo non arrivano mai a comparire sulle pagine di pubblicità, ma non hanno nemmeno i soldi per comprarsi una copia delle riviste su cui compaiono le réclame dei loro generosi datori di lavoro".

Mentre in Italia, e in particolare nel distretto tessile di Prato, è una landa deserta e abbandonata, da ultimo giorno del mondo, con le fabbriche chiuse, dove intere famiglie di cinesi abitano e lavorano nello sporco e nel degrado più totali. E il futuro un'inevitabile esplosione dei rapporti sociali fra le diverse etnie, la stessa che la Francia ha già vissuto e che l'Inghilterra sta vivendo in questi giorni.

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lunedì 1 agosto 2011

A Damasco la protesta contro la presidenza Assad è entrata ormai nella sua fase più calda, ma è intorno alla città di Hama, duecento chilometri a Nord della capitale siriana, che si gioca lo scontro più importante, che non è quello interno tra manifestanti ed esercito governativo, ma quello internazionale tra Siria e Turchia. L'avanzata dei carri siriani a ridosso del confine fra i due Paesi potrebbe rappresentare l'innesco a un’operazione che Ankara medita ormai da mesi: con il pretesto di proteggere e ospitare i profughi in fuga, entrare in territorio siriano e creare con la forza una zona cuscinetto (una manovra già messa in atto durante la prima Guerra del Golfo, al confine con l'Iraq di Saddam Hussein). Gli esperti prevedono l'occupazione di una striscia di territorio larga al massimo dieci chilometri lungo una parte di confine. In questo modo Ankara rischia di attirare su di sé le ire delle diplomazie internazionali, ma ne conseguirebbe un sicuro vantaggio: arrestare i profughi al di là del confine, in territorio siriano (nei campi della Mezzaluna Rossa, in territorio turco, sono già 10mila i profughi siriani).
In questo senso andavano sicuramente lette le parole del premier turco Erdogan che aveva definito "assolutamente deludente" le assicurazioni di Erdogan sulle riforme liberali in progetto. E la situazione sembrava dover scoppiare quando i carri armati di Damasco sono stati visti a meno di un chilometro dalla cittadina turca di Guvecci.
Ma negli ultimi giorni, il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davoutoglu, si è assestato su posizioni più prudenti: "Speriamo che la Siria riesca a rinnovarsi in una maniera tranquilla e che esca da questa situazione ancora più forte: noi faremo tutto il possibile per assisterla nell’attuazione di riforme che la rinnovino nella stabilità rendendola più forte”.
Perché questo cambio di rotta? Perché nel frattempo ad Ankara si è consumata la rottura (definitiva?), covata da tempo, tra il governo filo-islamico di Erdogan e le gerarchie militari, tutori della laicità dello stato kemalista: venerdì scorso il capo di Stato Maggiore e i suoi sottoposti capi di Stato Maggiore di Esercito, Marina e Aeronautica si sono dimessi dai propri incarichi in segno di protesta per la decisione del governo di trasferire nella Riserva 17 ufficiali dell'Esercito e altri 25 commilitoni implicati nel piano per il presunto colpo di stato anti-Erdogan scoperto nel 2003. Secondo i militari, invece, lo scopo dell'esecutivo sarebbe quello di promuovere al loro posto ufficiali sensibili alle istanze religiose.
E' l'ultimo atto di un braccio di ferro tra il partito di Giustizia e Sviluppo (al governo dal 2002) e le forze armate, recentemente inaspritosi (oltre che per la storia del tentato golpe del 2003) per i risultati del referendum, voluto da Erdogan, che nel 2010 ha limitato i poteri dell'esercito e, soprattutto, per la schiacciante affermazione elettorale di Giustizia e Sviluppo alle elezioni dello scorso 12 giugno (quasi il 50% dei voti). Uno scontro che non può che bloccare i progetti militari di Ankara, che rischia di trovarsi in conflitto anche con l'Iran, prima sostenitrice del presidente siriano Assad.
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