Lotta Europea

Lotta Europea

lunedì 25 marzo 2013


20 (venti) euro: tanti sono quelli che risparmierà la Candy per ogni lavatrice prodotta a Jiangmen, in Cina, anziché a Brugherio, in Brianza. 140 € anziché 160, costi industriali e spese di trasporto verso i grandi scali del Nord Europa compresi. Tanto basta perché perdano il lavoro 150 persone (un terzo degli addetti al montaggio), nonostante abbiano proposto di intensificare la produzione, arrivando a produrre 46 macchine l'ora contro le attuali 35. Niente da fare: a Brugherio si produrranno solo 450mila lavatrici (oggi se ne lavorano 700mila), a Jiangmen 3 milioni, in gran parte destinate al mercato europeo. Paradossi del libero mercato e del villaggio globale, che ha già portato alla chiusura di altri quattro impianti della stessa azienda in Italia, a Milano, Erba, Bergamo e Lecco.
Ed è solo l'ultima di una infinita lista di imprese, FIAT in testa, che hanno delocalizzato e stanno delocalizzando la propria attività, spostando la produzione nei paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti, dove il lavoro costa meno, la dignità dei lavoratori è calpestata e lo stato è assente (o finge di non vedere).
C'è ancora un futuro per l'industria italiana o il destino segnato è quello di diventare esclusivamente una meta turistica? C'è ancora spazio per la manifattura in un paese abitato ormai solo da artisti, designer e call center? La risposta ce la sta dando la Germania, dove i grandi produttori, superato il periodo buio della crisi, hanno mantenuto il grosso dell'attività in patria, complice uno stato che, capace di una visione strategica, è stato in grado di sostenere l'innovazione e le riconversioni industriali, con investimenti pubblici e piani sociali.
Ancora una volta, la risposta è Politica.
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sabato 23 marzo 2013

Se qualcuno aveva potuto credere alla favola di Ankara alla guida del mondo arabo contro Israele (noi non siamo mai stati tra questi), ora potrà facilmente ricredersi.
Durante il suo viaggio in Israele, Obama è riuscito a convincere il premier Netanyauh a telefonare al suo omologo turco Erdogan per offrire le scuse ed i risarcimenti alle famiglie per le morti causate dalla Marina israeliana a bordo della nave turca Mavi Marmara che nel maggio 2010 tentava di sfondare il blocco navale a Gaza. La risposta di Erdogan ha ricordato il fortissimo e storico legame fra i due popoli, rinnovato, ne siamo certi, più che dalla recente telefonata, dal comune interesse alle sorti di Assad e della Siria. Intanto i due paesi riallacceranno normali relazioni diplomatiche e torneranno a scambiarsi gli ambasciatori.
Noi ve lo avevamo detto.
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giovedì 21 marzo 2013

Domenica scorsa Viktor Chirkova, ammiraglio capo della marina russa, ha anunciato che da ora in avanti la Russia avrà sempre cinque o sei navi da guerra (sotto il comando della Flotta del Mar Nero) nel Mediterraneo orientale, dove, tra l'altro, due mesi fa Mosca ha condotto la più grande esercitazione militare dalla caduta dell'URSS: poca cosa rispetto alle trenta o cinquanta navi mantenute nell'area dalla Quinta flotta sovietica tra il 1967 e il 1992, ma una sicura testimoniata del rinnovato interesse di Mosca per il quadrante. E' in quest'ottica che va letto l'interessamento di Putin per il salvataggio di Cipro, che, in ottica futura, potrebbe sostituire una Siria dal destino sempre più in bilico, con il governo di Assad sempre più vicino alla caduta, ora che l'Occidente ha iniziato apertamente a parlare di armare gli insorti. Il canale di trattative aperto con Nicosia per la ristrutturazione del debito delle banche cipriote, oltre quello di salvaguardare le ingenti somme di denaro russo depositate nelle banche dell'isola, ha il preciso fine di assicurarsi un nuovo partner politico e commerciale ed una nuova base che possa sostituire il porto di Tartus sulla costa della Siria. In gioco c'è, in primis, l'esclusiva sullo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale "Afrodite", su cui ha già messo gli occhi la Turchia: è per questo motivo che al viagigo diplomatico da Nicosia a Mosca ha preso parte, oltre al ministro delel finanze, anche il ministro dell'Energia che ha incontrato i dirigenti di Gazprom. In secundis, c'è l'installazione di una base militare russa sull'isola che possa contrastare il potere della Sesta flotta americana già presente nell'area.
 
A proposito di Siria, durante il viaggio in Israele di Obama (che ha parlato di una eterna alleanza, di sapore biblico, tra Stati Uniti ed Israele) il ministro dell'Intelligence e degli affari strategici israeliano, Yuval Steinitz, ha continuato a denunciare l'utilizzo di armi chimiche da parte di Assad (smentito anche dall'ambasciatore americano in Siria), proprio una delle red line fissate dalla Casa Bianca per un eventuale intervento militare contro Damasco. Intervento che si fa sempre più vicino all'orizzonte.
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martedì 19 marzo 2013


A Gaza la rete elettrica riceve la metà dei megawatt necessari (167 a fronte di un fabbisogno di 300/350) e la luce manca in media per 8 ore al giorno. I più fortunati hanno generatori a benzina, ma anche la benzina finisce e allora ci si adatta con un adattatore attaccato alla batteria della macchina; i meno fortunati si accontentano di una candela, attenti a non dimenticarla accesa perché la casa non bruci come già successo un paio di volte negli ultimi mesi. A Gaza il maggior fornitore di energia elettrica è l'israeliana Israeli Electric Company (120 megawatt, il 71,9%) perché la Gaza Power Plant (GPP), l'unica centrale elettrica dei Territori Occupati, produce solo 30 megawatt (18%). Questa è figlia degli accordi di Oslo e dell'investimento di un gruppo di privati arabi ed americani, prima su tutti la multinazionale libanese Consolidated Contractors Company (CCC), leader nel settore edilizio, che, dopo aver speculato sulla ricostruzione del Kuwait dopo la prima guerra del Golfo e dopo aver costruito oleodotti nello Yemen, fonda la Palestinian Electric Company (PEC), compagnia che possiede al 99% la Gaza Power Generating Company (CPGC), società di gestione della centrale di Gaza. Sia detto per inciso, al momento della sua fondazione le azioni della PEC erano per il 33% di proprietà della CCC, per il 33% della Enron, sostituita, dopo il noto fallimento del 2002, dalla Morganti. L'interessamento per l'elettricità di Gaza nasce da un contratto capestro ventennale stipulato nel 2004 con l'Autorità palestinese che, indipendentemente da quanto realmente prodotto dalla centrale, si è impegnata a pagare ogni mese 2,5 milioni di dollari per l'acquisto del carburante necessario. D'altronde la Gaza Power Plant non è mai riuscita a produrre quanto pattuito, vuoi perché nel 2006 l'aviazione israeliana ha distrutto tre trasformatori su sei, vuoi perché Israele dal 2007 ha dimezzato le importazioni di petrolio: ciò nonostante ogni mese l'Autorità Nazionale Palestinese ha rispettato il suo impegno e pagato quanto dovuto. Considerato l'investimento iniziale di 150 milioni di dollari per la costruzione della centrale, considerati i 240 milioni ricevuti dall'ANP dal 2004 ad oggi e considerato il prezzo dell'elettricità prodotta (tra le 4 e le 7 volte più cara di quella importata da Israele o dall'Egitto), un vero affare per gli investitori privati, a tutto scapito delle casse statali e della qualità di vita del popolo palestinese. Vista la chiusura dei rubinetti israeliani, sono l’Unione Europea e, unilateralmente, alcuni paesi membri e la Svizzera che dal 2006 hanno preso in carico la totale fornitura del gasolio per la centrale con una spesa calcolata fino ad oggi di oltre 300 milioni di euro, versati nelle casse della Dor Alon 1988 ltd, compagnia petrolifera israeliana che agisce nei Territori Occupati da monopolista, e con la quale l’Anp era già sotto contratto. Un contratto strano, che nessuno ha mai letto e che permette allo stato Israele di incassare l'1% della spesa per i "costi di struttura": l'1% di 300 milioni sono 3 milioni di euro transitati da Bruxelles a Tel Aviv. Una situazione paradossale perché a meno di 20 miglia dalla costa, dunque nello spazio di competenza economica dell'ANP sulla base degli accordi di Oslo, vi sono giacimenti di gas naturale con riserve per 15 anni (le licenze di sfruttamento sono al 60% della British Gas, al 30% della CCC e al 10% del fondo sovrano palestinese Palestinian Investiment Fund), ma Israele non ha ancora dato la sua autorizzazione alle operazioni di estrazione e distribuzione del gas, che, tra l'altro, comporterebbe l'afflusso nelle casse dell'ANP del 22% dei profitti dalla vendita. Nel frattempo, per il profitto di pochi, le case e gli ospedali di Gaza restano al buio.
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